Mauro Scarpa per “Scritti in Vetrina”: Principe azzurro devi morire.

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“Principe azzurro devi morire” è il racconto che Mauro Scarpa ha scritto nella vetrina della Libreria Icaro utilizzando le parole suggerite dai clienti (chiostro – virtuale – leggerezza – mele – vene – astri – carbone – omogeneizzati palamita – binario – tana – azzurro).

Principe azzurro devi morire

Questa non è una favola. Non ci sono mele avvelenate che gelano il sangue nelle vene, anche quelle varicose. Questo è, a tutti gli effetti, un prontuario indolore che ha l’obiettivo di svelare alle donne, a quasi tutte le donne, il segreto per riconoscere il principe azzurro, ed eventualmente ucciderlo. Prometto leggerezza e precisione, prometto di mantenere la promessa. Ecco, questa è la prima cosa a cui non dovete credere. Alle promesse di amore, cura, attenzione. A meno che non siate quel tipo di donna che si innamora del medico. O del paziente. Dite la verità. Gli uomini ammalati vi piacciono, specie se vi guardano con sguardo intenso, da palamita turgida. E, soprattutto, non estorcete loro promesse. Sarebbero capaci di mantenerle gli uomini. E rinfacciarvele. Davanti alla vostra beltà ciascuno si sente invincibile, davanti alle vostre gonne ciascuno, insomma, si scioglie, si sente pronto a tutto. Quando siete nude.

Il principe azzurro non è il tenebroso, quello che risponde alle vostre domande con lunghi silenzi, pause, colpi di tosse, vaffanculo tu non puoi capire. Chi non parla ha niente da dire. E se volete maritarvi col niente son problemi vostri, ed eventualmente di chi ha pagato il banchetto di nozze e si è ritrovato, dopo pochi mesi, una figlia divorziata. Gesù, che scandalo!

Torniamo sul binario delle cose da non fare, da non dire, da sottolineare.

Non consultate gli astri. E neanche gli altri. Gli altri, quando parlate d’amore, pensano automaticamente alla propria situazione sentimentale e fanno un si contrito con la testa e intanto stanno gongolando. Si, perché agli altri l’amore va sempre bene, si chiamano troia e ricchione a vicenda per giorni e giorni ma poi l’amore trionfa sempre e via con le maratone degli orgasmi, con le scuse dette piano, con gli sguardi intensi (vedi la palamita di cui sopra).

Vogliamo parlare del principe azzurro e virtuale? No, per stavolta ce ne guardiamo bene. Lasciamolo rinchiuso nella sua tana. Fatti. Servono fatti, grandi e piccoli, larghi e stretti, obliqui.

L’uomo, nel senso di essere umano, non ha mai salvato nessuno dei suoi simili, lo ha rianimato qualche volta, ma la salvezza no, lasciamola per favore ai catechismi, letti ad alta voce nei chiostri, giusto per convincersi che dio insiste.

Quindi non chiedete al potenziale principe azzurro di salvarvi. Una performance superiore ai cinque minuti è già qualcosa. E diffidate di chi vuole salvarvi da voi stesse, lo capite da sole che non si può fare.

Il principe azzurro, a dirla tutta,è un termine assai generico. Come dire carbone. Che tipo di carbone? Antracite, litantrace, lignite o torba? E’ come dire sono emozionata. Di che emozioni soffri? Sei felice, arrabbiata,annoiata o cosa? Va bene, come vuoi tu, non ti incazzare. Quell’uomo di scatena le emozioni che vuoi tu.

Ieri mattina sono andato al supermercato, e al reparto degli omogeneizzati mi sono fermato e in un attimo ho colto il senso dell’universo, tipo Siddharta che alla fine si sente parte di un tutto cosmico, comico, quasi ironico.

Il principe azzurro sei tu, donna. Sei tu quella che si fa i chilometri a cavallo per baciare un dormiente.

Sei sempre tu a tingere d’azzurro ogni singolo avvenimento, parola, omissione.

Quindi prendi l’uomo e scappa. Altrimenti lui si metterà una corona in testa. E a te, di tanti sogni,resterà soltanto, un incantesimo bastardo.

Paolo La Peruta per “Scritti in Vetrina”: Amore e Grammatica

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…ed anche il racconto di Paolo La Peruta ha visto la luce, nonostante i problemi tecnici che hanno remato contro. Grazie Paolo!

Queste le parole suggerite dai clienti della libreria:

Profumeria
Gesseto
Capricorno
Omofobo
Panino
Giuncata
Strabico
Compassione
Burrasca
Pace (ma guarda un po’!)
Fumetto
Per Giove (ovviamente)

Amore e Grammatica

Giovedì sera, ore 21.43. Poche ore alla finale. Anzi, se i calcoli di Tonino sono esatti, e di solito lo sono, mancano undici ore e quarantasette minuti alla sfida tra i migliori cervelli undicenni del paese di Marciano di Napoli. Il vincitore si aggiudicherà l’ambito titolo di campione comunale del primo torneo interscolastico “L’Italiano Prima di Tutto”. Per arrivarci Tonino ha letto per ben tre volte di seguito tutte le centotrentottomiladuecentododici voci del dizionario della lingua italiana Zingaroni, prefissi, suffissi, locuzioni, sigle e lettere comprese. Ad alimentare l’infaticabile volontà di Tonino non è l’ambizione, il desiderio di primeggiare o la fame di gloria. Nulla di tutto ciò. Il combustibile di un simile sforzo ha un solo dolce nome, due armoniose sillabe, quattro melodiose lettere: Sara, una deliziosa bambina di origine pugliese che fino alla terza elementare aveva frequentato la sua stessa classe per poi trasferirsi in un’altra scuola un paio di anni prima. Anzi, se i calcoli di Tonino sono esatti, e di solito lo sono, due anni, tre mesi e diciotto giorni prima.

Ora che è arrivato in quinta elementare, quella che era cominciata come una semplice cottarella, si è trasformata in un pensiero fisso, un doloroso chiodo conficcato nel suo cuore fanciullo. Beh, questo cuore finalmente ha una seconda possibilità. Sara Gentile, infatti, è una dei tre finalisti della gara “L’Italiano Prima di Tutto”. Non può essere un caso, pensa Tonino, e poi si sa, “il caso non esiste”, lo dice pure Kung Fu Panda!
Certo, il fatto che il terzo finalista sia Andrea De Bellis, il bellissimo, intelligentissimo e corteggiatissimo figlio del sindaco, non aiuta la già traballante fiducia in se stesso del nostro eroe, e i “TI AMO ANDREA”, “ANDREA DE BELLIS I LOVE YOU” scritti sul muro della sua scuola non migliorano la situazione. Tonino darebbe due dita dei piedi e il mignolo della mano sinistra per trovare, un giorno, una scritta che lo riguardi. Si accontenterebbe persino dello sgrammaticatissimo “IL MIO AMORE PER TE E’ IMMENZO” comparso ultimamente su quel muro, mannaggia la marina, mannaggia!

– Tonino, spegni la luce che domani ti aspetta una giornata

difficile, devi dimostrare a tutte le scuole del paese quanto vali.

– Grazie mamma, – risponde togliendo gli occhiali dalla montatura rossa e argento – ora sì che dormirò sereno, mannaggia la marina, mannaggia!

Con un clic, Tonino spegne la lampada a forma di stella dell’Ikea. Il sonno alla fine arriva, infilandosi tra un pensiero di riscossa ed uno di disfatta.

Venerdì mattina, ore 9.30. La moderna aula magna intitolata a Massimo Troisi è già gremita di bambini provenienti dalle tre scuole elementari del comune di Marciano di Napoli. Divisi tra i banchi per classi, accompagnati dai rispettivi maestri, gli scolari vociano senza sosta. Pochi minuti dopo una donna imponente, dallo sguardo severo e i capelli neri tirati indietro da una crocchia alta e nera, grossa come una melanzana, prende posto al banco dei relatori – Buongiornooooo – tuona nel microfono con una voce possente e ruvida come pelle di squalo bianco.

Nella grande sala scende un silenzio carico di tensione. La donna appena arrivata è la temutissima Maria Rosaria Donnarumma, preside della scuola De Filippo. Tutti sanno che con lei c’è poco da scherzare quindi, bambini e maestri tacciono senza farselo ripetere una seconda volta.

Bene – dice Donnarumma soddisfatta – cominciamo subito la finale del torneo interscolastico “L’Italiano Prima di Tutto”. Dopo una lunga serie di sfide che si sono tenute tra gli alunni di ognuna delle tre scuole primarie di Marciano, questa mattina si scontreranno i tre alunni finalisti. Chiedo ai maestri e alle maestre di tenere a bada l’entusiasmo dei bambini. Siamo in una scuola, non in uno stadio. Non saranno tollerati cori, proteste o grida di incoraggiamento. Questo è un concorso serio, voluto dal nostro governo su tutto il territorio nazionale per ridare alla nostra lingua l’importanza che merita – qui il tono della voce diventa acido, quasi schifato – Purtroppo una vera e propria invasione senza tregua da parte di gentaglia che arriva da ogni parte del mondo sta minacciando la bellezza della nostra lingua, e non solo quella. Il nostro governo ha pensato bene di porre rimedio a questo imbarbarimento.

I maestri annuiscono all’unisono. I bambini, pur non avendo capito quasi nulla, tacciono terrorizzati. Intanto, appena fuori dalla porta, impauriti e impazienti, attendono i tre finalisti: per l’Istituto Paritario Ceva Grimaldi c’è l’inappuntabile Andrea De Bellis, mentre a rappresentare la Scuola Primaria Cannavaro c’è Sara Gentile con indosso un vezzosissimo vestitino rosa. Sara è una bambina chiara di carnagione, con dei tratti vagamente orientali e le labbra più dolci e commoventi che si siano mai viste da questa parte dell’universo, almeno è così che la descriverebbe il nostro Tonino Di Girolamo, l’occhialuto, minuto e silenzioso terzo finalista della Scuola Primaria De Filippo.

– Entrino i concorrenti. – dice con tono marziale la preside.

Tonino deglutisce rumorosamente, anche Sara esita, così tocca ad Andrea prendere in mano la situazione.

– Ragazzi, tocca a noi.

I bambini entrano in fila e si dispongono sui tre banchi sistemati al lato del tavolo della Donnarumma. Tonino siede in quello più vicino alle preside. Le sta così così appiccicato che riesce persino a sentirne l’odore, cosa non difficile, visto che la preside sembra essersi vuotata addosso un’intera profumeria. Sara è nel banco centrale e Andrea dalla parte opposta.

Il nostro eroe si guarda intorno intimorito. I bambini nella sala sono quasi trecento. Nella quarta fila c’è la sua classe. In mezzo ai compagni, la maestra Alessandra gli lancia materni sguardi di incoraggiamento. Lui accenna un sorriso. Accanto alla maestra, Dario Verardi sta mangiando furtivamente il suo panino. Sai che novità! Dario Verardi non fa altro, poverino. Più in là c’è Afaf Ra, la bambina nuova, quella che viene dal Marocco. Tonino incrocia quasi per caso i suoi occhi e le sorride imbarazzato, lei, di rimando, gli spedisce un bacetto volante.

“Eh?”, pensa Tonino disorientato, “Me lo sono sognato o quello era un bacio?”, lo stupore è costretto a cedere il passo al vocione della preside – Tra poco vi consegnerò un foglio ciascuno contenente dieci parole prese dal vocabolario della nostra gloriosa lingua italiana. Accanto dovrete scrivere la vostra definizione. Avrete tre minuti a vocabolo, trenta in tutto, per riconsegnare i fogli. Colui che scriverà il maggior numero di definizioni corrette si aggiudicherà la finale. In caso di parità si andrà avanti ad oltranza. Tutto chiaro?

Ora, dire che Sara, Tonino, Andrea e i trecento bambini presenti in sala abbiano capito proprio tutto della spiegazione appena ascoltata sarebbe quantomeno inesatto, ma nessuno ha il coraggio di rispondere qualcosa di diverso da un unanime – Siiiiii! – quindi la finale ha inizio.

I concorrenti vengono chiamati al banco. Ognuno prende il proprio foglio e comincia a leggerlo ancora prima di rimettersi a sedere.

– I trenta minuti sono appena partiti. – dice la preside, rivolgendo poi un cenno a Salvatore, il maestro di educazione motoria che trascrive col gessetto i vocaboli su una grande lavagna:

Strabico

Bizzeffe

Gomena

Giuncata

Burrasca

Carciofo

Capricorno

Omofobo

Fumetto

In sala si diffonde un crescente brusio. Maestri e bambini leggono le parole e prendono a confrontarsi tra loro.

Silenzio. – ammonisce spazientita la Donnarumma.

Tonino intanto legge e rilegge avidamente i vocaboli. Su sette di loro non ha alcun dubbio, riesce quasi a visualizzare l’immagine delle loro definizioni sullo Zingaroni. Di altre due parole è quasi certo di ricordare il significato, spera solo di trovare le parole più giuste per descriverlo. Una sola lo sta mettendo in crisi, mannaggia la marina mannaggia. Prima di cominciare a scrivere, alza lo sguardo sugli altri finalisti. Sara è già all’opera, ma si accorge che Tonino la sta guardando quindi, dopo avergli rivolto un’occhiataccia, mette platealmente un braccio davanti al foglio e lo fa scivolare sul lato opposto del banco. Il cuore di Tonino si stringe in una morsa, ma non è ancora nulla rispetto a quello che prova quando si accorge che Andrea, approfittando della vicinanza del foglio di Sara, allunga il collo per sbirciare. Lei se ne accorge, e invece di indignarsi, gli sorride e spinge il foglio di un altro paio di centimetri verso di lui. “Perfetto, Sara mi detesta ed è innamorata di Andrea”, pensa dolorosamente Tonino che sta persino pensando di alzarsi e scappar via prima di mettersi a piangere davanti a tutti bambini del paese.

– De Bellis, guarda sul tuo banco altrimenti ti squalifico. – ruggisce la preside. Sara rimette il foglio al centro, Andrea incassa la testa tra le spalle, Tonino ringrazia mentalmente la Donnarumma per questa piccola vendetta indiretta. Alza nuovamente lo sguardo verso la sua classe temendo di trovare sguardi pieni di compassione per quel beniamino offeso, ma quel che vede a dir poco lo stupisce: la maestra gli sorride annuendo lentamente, sembra quasi stia dicendo: forza che ce la puoi fare!

Anche i suoi compagni, chi a gesti, chi solo con gli occhi, lo incitano a mettercela tutta. E poi c’è Afaf che, con il labiale, scandisce SEI IL MIGLIORE e poi gli manda un altro bacino. Tonino arrossisce, sorride, riempie per bene i polmoni e si immerge nella prova. Manca meno di un minuto alla fine del tempo previsto. De Bellis cancella e riscrive parole e intanto mangiucchia il tappo della sua bic. Non sembra più tanto disinvolto ora. Sara ha evidentemente finito e si guarda intorno soddisfatta e spavalda. Ora che la guarda bene, Tonino direbbe che è meno bella di come la ricordava. “E’ invecchiata male in questi due anni, tre mesi e diciotto giorni”, pensa sorridendo, poi ritorna a quelle benedette due ultime parole.

 

Venerdì sera, 20.15. La mamma di Tonino sta servendo cotolette e patatine, col ketchup per giunta. Certo non è una cena tradizionalmente partenopea, né tantomeno salutare, ma è il piatto preferito dal suo piccolo campione, quindi uno strappo alla regola ci vuole.

Dai, ripetimi come è andata. – chiede il papà pieno d’orgoglio per quel suo “figlio prodigio”.

– Dai Papà, lasciami mangiare in pace. E’ la terza volta che te lo racconto, per Giove! – risponde Tonino inzuppando tre patate nella salsina.

– Iamme, l’ultima volta e poi basta.

– E va bene. – concede il piccolo eroe del giorno – Ho consegnato il mio foglio. La Donnaruma ha corretto quelli di Sara e di Riccardo. Lei aveva dato sette definizioni giuste, lui cinque. Poi ha preso il mio, ha letto tutto da cima a fondo, è diventata blu per la rabbia e mi ha squalificato.

– Come mai? – incalza la mamma pur conoscendo la risposta.

– Quando si è calmata ha detto che nove delle mie definizioni erano giuste, ma che avevo mancato di rispetto a lei e a tutto il nostro paese e quindi non meritavo di vincere.

– E poi che è successo? – chiede il papà.
– Che la mia maestra si è alzata per capire cosa avessi fatto e ha praticamente strappato il mio foglio alla Donnarumma. Ha letto prima tra se, poi al microfono quello che avevo scritto.

– Che sarebbe?

– Che almeno tre delle parole nella lista sono di origine araba, le altre di origine francese, germanica o latina e che la nostra “gloriosa” lingua non sarebbe tanto “gloriosa” senza l’aiuto dei popoli stranieri. A quel punto tutti i maestri si sono alzati in piedi e hanno cominciato a protestare contro la preside. – altra patatina – A loro si sono uniti tutti gli alunni. Alla Donnarumma stava per venire un infarto, ma alla fine ha dovuto dire nel microfono  “come volete”, poi ha aggiunto alla mia maestra “ma il premio glielo da lei, io mi rifiuto”, poi si è alzata e se ne è andata. I bambini di tutte le scuole hanno applaudito per un sacco di tempo e poi mi hanno premiato, ok? Ora lasciatemi mangiare però.

– E poi come…

Il telefono di casa prende a squillare interrompendo l’interrogatorio. Il papà si alza a rispondere. La mamma ne approfitta per chiedere – e con Sara, come è andata?.

Tonino solleva gli occhi dal piatto dicendo – Sara? Sara chi?

La mamma sorride e riprende a mangiare. Il papà torna dalla sala con uno strano sguardo furbetto e dice – E’ per la nostra star.

– Chi è?

– Una ragazza, mi pare si chiami Afaf, ma non sono sicuro di aver capito bene.

Tonino molla le patatine, il ketchup, la mamma e il papà in cucina e corre al telefono, anzi, a guardarlo bene si direbbe che voli e di sicuro il suo cuoricino lo sta facendo.

 

FINE

Luisa Ruggio per “Scritti in Vetrina”: Biglietti di ritorno

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La protagonista di “Scritti in Vetrina” di Sabato 12 dicembre è stata Luisa Ruggio che si è dovuta cimentare nell’impresa, non facile, di scrivere un racconto breve utilizzando le parole che seguono:

  • gabbia;
  • alibi;
  • spreco;
  • notte;
  • triangolo;
  • disertare;
  • panico;
  • deriva;
  • ormai;
  • tempo;
  • fondo;
  • manico;
  • frammenti;
  • gioia;
  • neve;
  • Sogni;
  • ragioni;
  • un Icaro insonne;
  • amore;
  • volo;
  • ciambella;
  • impermeabili;
  • vetrina;
  • capriccio;
  • casolare;
  • fisiognomica.

Biglietti di ritorno

L’istante in cui tutto torna semplice è senza ritorno. Spinge dentro, forza le serrature, slarga la gabbia del miocardio costretto nella fasciatura di fibre stanche a forza di alibi. Non partire, non lo dice, lo pensa soltanto. Che spreco. Lei è qui, calda di vita, urgente, il suo corpo è un tabernacolo dinanzi al quale si è inginocchiato per pregare, per dilatare il più a lungo possibile una notte rubata.

Può ancora sfiorare con le dita il piccolo triangolo d’argento fermo al lobo del suo orecchio sinistro. Le ha dato quegli orecchini quando erano ancora due sconosciuti, lei guardava spesso di lato, cercando un appiglio, qualunque cosa, pur di non guardarlo negli occhi. Verdi occhi di velluto, sognanti come quelli dello Stregatto. Fino a che punto si sarebbe allenata a disertare quel verde? Respira, le dice. Aria dentro, aria fuori, il primo istinto. Sembra facile.

Ricambia le sue parole con un sorriso nervoso. Non è un sorriso quello, è un attacco di panico. Può cercare la consistenza dei suoi capelli, può darle un ritmo, un’intonazione, come quando la snuda e la ascolta scivolare ad occhi chiusi in una zona franca, una pausa, allora la pettina lentamente, prova a restituirle un’infanzia indecente, uno stupore che lei si nega con una certa abilità per non averne bisogno dopo, quando sarà lontana da lui, quasi persa, alla deriva. Mentre si avvicinano all’aeroporto si volta a guardarla, la riconosce, al di là di ogni legge fisiognomica, accedendo alle immagini segrete che in giustapposizione lei proietta intorno a sé, alla stregua di una lanterna magica. Eccola qui. Una bambina che non ricorda più la strada che la riporterà a casa, ormai donna. Il gate 2 è a soli quindici minuti da qui, ma il tempo è sospeso in un livello impossibile.

Tutt’intorno sciama il traffico della sera, tutto lampeggia come sul luogo di un incidente. In effetti un incidente c’è stato, un cortocircuito diviso due, un fragile luogo di panico. Un luogo invisibile dentro la donna che le manca anche quando dorme al suo fianco e che ora stringe la mano in fondo alla tasca del cappotto, sino a immaginare lo sbiancarsi delle nocche. La stessa mano che tra poco dovrà usare per aprire lo sportello dell’auto, poi impugnare il manico della valigia, quindi i frammenti della gioia appena vissuta.  Lui spinge sull”acceleratore guadagnando la corsia d’emergenza, la radio trasmette una vecchia canzone, gli ricorda le scenografie dismesse che restano a macerare sotto la pioggia, cancellate dalla neve improvvisa che può tornare di colpo nella Città dei Sogni. L’ha vista camminare dentro quella teoria di atmosfere, Cinecittà, un passaggio segreto che si insinua in una carrellata di immaginari desideranti. Fellini, Totò, Sergio Leone, il ghigno di Tina Pica, il sorriso amaro della Magnani in un ritratto in bianco e nero. Ricorda il suono della sua risata piccola a ridosso di quelle divinità private, condivise con milioni di spettatori, altri adulti come loro, altri fermi al tavolo delle ragioni con la testa tra le mani dopo una mano sfortunata. Zero. Altro giro, quanto hai intenzione di rischiare questa volta?

Una moto li sorpassa, slalom nervoso, quasi il balbettio di un Icaro insonne che impreca mentre precipita dentro un amore. Si inanella su loro due, questo amore che hanno provato a soffocare, è in volo, insieme ai secoli sfiorati con le dita – i profili di marmo, i lineamenti delle statue dallo sguardo ridotto ad una vasta fissità, le pietre macchiate lungo il Tevere che taglia trasversalmente la città, le foglie crepitanti e gialle come una ciambella appena sfornata, le sirene ottocentesche disegnate da un pittore di strada su un foglio sgualcito, quegli sguardi impermeabili ottenuti a forza di sanguigna, la gomma pane non è riuscita a dissimulare, nemmeno dopo vari ripensamenti, la loro natura ambivalente – insieme alla materia inenarrabile di cui è fatta la distanza che sta per aprirsi tra loro, non appena il suo bagaglio sarà controllato, quando lei si metterà in fila insieme agli altri passeggeri pronti ad imbarcare dopo aver sfilato lungo un labirinto di scale mobili, come pesci in un acquario, come nostalgie o puttane esposte in vetrina.

Lui spera in un suo capriccio, un guizzo salvifico che li porterebbe di nuovo nella stanza isolata dal mondo come un casolare nascosto ai margini di una terra dimenticata. Biglietti di ritorno, siano maledetti, ma nessuno dei due lo dice. Poche ore fa erano ancora al centro della storia, lui le ficcava la vita dentro. A colpi.

Elisabetta Liguori per “Scritti in Vetrina”: L’APPRENDISTA GUARDONE

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  • Camera oscura;
  • Gastroenterologo;
  • Esibizionista;
  • Sterrato;
  • Vigili Urbani;
  • Labbra;
  • Rimorso;
  • Scacchi;
  • Occasione;
  • Cucciolo.

Queste sono le parole che Elisabetta Liguori ha dovuto utilizzare nella stesura del suo racconto per “Scritti in Vetrina”.

L’ apprendista guardone

Natale è un mostro a due teste. Vive in una camera oscura che riproduce la sua immagine tra il rosso, l’oro e il bianco, identica di anno in anno. Una testa riproduce i tratti di famiglia: la grana rosata della mia pelle, un certo modo di camminare, il taglio dei miei occhi. L’altra testa ha il volto del desiderio che attraversa ogni dicembre in modo specifico.

Ogni anno è una partita a scacchi fra me e il calendario. A partire dai primi del mese comincio a giocare con una malinconia indolente che solo il mio gastroenterologo saprebbe come curare. Quest’anno ho deciso di chiedere aiuto al mio librario di fiducia.

Solo i librai sono felici a Natale. In realtà buona parte del commercianti sono felici a Natale – grazie all’incremento irragionevole delle vendite e le strade pullulanti di mille portafogli, mai così lievi – ma i librai lo sono di più. Di rado è festa in libreria. Nella mia soprattutto. Un quartiere silenzioso, senza ritorno, strade buie, latente tra gli abitanti il rimorso di non essersi sforzati abbastanza di trovare un appartamento altrove. La libreria del mio quartiere è sempre vuota. Nessuno tra pensionati, casalinghe, ragazzine brufolose, artigiani, si farebbe mai venire in mente di entrarci se non per chiedere di cambiare una banconota in spiccioli per il parcheggio. Io passo molto del mio tempo in perfetta solitudine quando sono in libreria, ma a dicembre l’aria è diversa.

Tonio canticchia nel retrobottega, aprendo le scatole appena arrivate. Deve allestire la nuova vetrina e siamo soltanto nella prima decade del mese.

  • Per oggi entraci tu.

Mi dice ridendo, vedendomi arrivare.

  • Hai bisogno di una mano?
  • In vetrina. Mettiti tu in vetrina.

 

Non credo ci abbia ragionato su. Deve essergli venuta in mente così: un’occasione come un’altra per darmi qualcosa da fare e non vedere la mia solita faccia trascinarsi da uno scaffale all’altro.

  • E che ci faccio in vetrina?
  • Leggi o scrivi. Non so, vedi tu. Guardi e ti fai guardare. Solo per oggi, fino a che non decido come disporre le strenne natalizie.
  • Ma non ci vogliono le autorizzazioni per certe cose?
  • Autorizzazioni?
  • Tipo i vigili urbani, che ne so. È legale?

 

L’esibizionista che è in me si sveglia così. Saranno le diciotto, la gente esce dagli uffici, prende l’auto, ritira i figli lasciati dai nonni, monta al volo su un autobus, entra nei supermercati. Posso fregarlo quest’orribile dicembre se mi siedo dentro un vuoto rettangolo di luce e cerco di rubare i desideri della gente che passa. Se fingo di essere qualcuno che non sono, guardando negli occhi la gente che decide di guardare me. Per certe cose possono bastare anche pochi minuti.

Davanti a me c’è un cucciolo. Quanti anni potrà avere? Sedici? Di certo meno. Ha stirato i capelli. Deve avere usato una di quelle piastre incandescenti che le adolescenti si fanno regalare al primo Natale della loro pubertà; lo si intuisce dalle radici ispide che le fanno resistenza sulla fronte. Credo stia piangendo. Tiene bassi gli occhi. Si è poggiata sul muro laterale. Ne intravedo il gomito, il contorno dell’orecchio che trattiene una ciocca di capelli. Le vedo la spalla tremare. Non ha ancora guardato nella vetrina. Per attirare la sua attenzione sorrido. Si volta. Sussulta. Ha l’espressione stranita di un portuale che abbia scoperto un clandestino nella stiva.

Ecco, ci siamo. Mi sta guardando davvero. La guardo. La prima cosa è chiederci entrambe cosa stiamo facendo. Io sono dietro la piccola scrivania che Tonio ha messo nel rettangolo della sua vetrina per me. Mi ha fornito un portatile, che non è quello che uso di solito, ma va bene comunque. Ho messo il mio cappotto sulla spalliera della sedia. Fa un po’ freddo. Davanti a me: il marciapiede, la strada a doppio senso di marcia, il tendone bisunto di un caldarrostaio. Qualche auto, un paio di biciclette nonostante il freddo. Non mi ero accorta di nulla prima dell’arrivo del cucciolo. Mi era parso di avere il nulla dentro e uno sterrato deserto di fronte.

Lei sa che l’ho vista piangere. Credo si senta scoperta. È arrossita. Anche io. Fingo di scrivere qualcosa sul pc, provo a non guardarla per qualche secondo, ma non reggo. Le sorrido nuovamente. Ora condividiamo un segreto.

  • Oh, oh, abbiamo pubblico.
  • Zitto, non farti sentire.
  • Falle segno di entrare a comprare qualcosa.
  • Non ci penso proprio.

La ragazza ha fatto spallucce. È come se mi stesse chiedendo scusa per aver pianto. Il perché posso solo immaginarlo. Ha gli occhi bucati, continua a tenerli aperti, sul fondo mi pare di vedere qualcosa che sembra rimorso. Non può essere, non a sedici anni o giù di lì. Comincio a scrivere di lei sul mio pc. Lei segue le mie dita e fa delle smorfie. Vorrebbe guidare lei, non riesce ad immaginare di cosa si possa scrivere in un momento simile. Noi non ci conosciamo. Non conosco nulla a parte i suoi occhi. Lei continua a leggere. Sembra preoccupata per me. Si passa la mano tra i capelli; li separa in due flussi distinti e compone due trecce ai lati della testa. Non mette gli elastici a reggerle alla fine. Tengono ugualmente e lei lo sa. Restano dritte e serrate, mentre continuo a scrivere. Ogni volta che tiro su lo sguardo, le trecce sono ancora là. E il cucciolo pure. Non va via. Si muove sul marciapiede, passa da sinistra a destra, senza perdermi di vista un attimo. I suoi occhi si sono fatti sempre più rapidi e attenti. Aspetta che sul mio pc compaia la fine della storia.

  • Ehi, cara, quando sei stanca vai pure. Non voglio mica sequestrarti!
  • No, Tonio, tranquillo, sto bene. Se tu sei d’accordo, io resto ancora un po’.

Se non va via lei, io non posso muovermi. La mia partita a scacchi ha un nuovo compare. È in gioco la vita, ma come in ogni partita c’è un confine temporale con cui confrontarsi. La ragazza guarda spesso l’orologio. Me ne sono accorta solo ora. Forse deve tornare a casa. Si è seduta sul marciapiede davanti a me, ha raccolto le ginocchia e continua a fissarmi. Non abbiamo tutta la vita, solo questo piccolo frammento. Devo arrivare alla fine, farlo presto. Tutto finisce prima o poi, anche il più lungo dei viaggi da clandestini, anche questo Natale. Scrivo.

D’improvviso non siamo più sole.

È comparso qualcuno accanto al mio cucciolo.

Mi guarda anche lui. Deve essere di poco più grande di lei. Ha la fronte sudata, il giubbotto stretto fino al collo. Sta dicendo qualcosa alla mia ragazza, le ha posato una mano sulla spalla, ma lei non si volta a guardarlo. Continua a guardare me, aldilà della vetrina. Scrivi, sembra che mi dica, scrivi tu la risposta. Io le sorrido e abbasso la testa. Era da tempo che non avevo tanta paura.

Ho scritto tre pagine. Alzo la testa. Il cucciolo ha lasciato il marciapiede.

Non la vedo più. Non vedo più neppure il ragazzo che era venuto a prenderla. Mi sporgo un po’ in avanti, per guardare meglio. La strada, le auto in doppio senso di marcia, il caldarrostaio. Lei non c’è.

  • Tonio!
  • Dimmi? Grida che non ti sento.
  • A che ora chiudi? Io ho finito. Ho freddo, penso che andrò via.

Quando mi volto per prendere il mio cappotto mi accorgo che la libreria è piena di gente. Tonio è alla cassa, sommerso dalla carta rossa per i pacchi regalo. Vecchie signore con i nipotini nel reparto bambini. Un grande brusio generale. Due prof parlano dell’anno pasoliniano e dei progetti del loro istituto scolastico. Il cucciolo è sul fondo della sala. Non è sola. C’è il ragazzo sudato accanto a lei, le tiene un braccio sulla spalla. Hanno trovato una nuova casa. Cerco di non farmi notare e sgattaiolo accanto a Tonio.

  • È stata una bella serata.
  • Grazie a te. Cara. Cara, cara! Torna quando vuoi. Ah, una cosa. La vedi quella ragazza? Sì, quella. Mi ha chiesto se poteva aggiungere una parola al testo che hai scritto stasera. Tu hai scritto qualcosa qui stasera quindi? Bello! Hai fatto bene!
  • Quale parola?
  • Labbra

 

Fine

Osvaldo Piliego per Scritti in Vetrina: “In te (il figlio che non vuoi)”

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Verticale, orizzontale, acido lisergico, epifragma, parossismo, ken, carbonio, sintagma, popper. Queste le parole che hanno rappresentato la sfida che i clienti della libreria Icaro hanno lanciato a Osvaldo Piliego nell’ambito della rassegna “Scritti in Vetrina“.

Questo il racconto che ne è venuto fuori:

In te (il figlio che non vuoi)

Ti sei messa in verticale, con le punte dei piedi a cercare il soffitto. Come nel film “Il grande Lebowski, appena finito di scopare, giusto per aumentare le possibilità di avere un bambino.

E io non mi preparo un White Russian come Jeff Bridges, non prendo acido lisergico neanche per sbaglio, semplicemente stappo una Dreher e mi accendo una sigaretta.

E pensare che un tempo ci strafacevamo di popper per trapanarci ogni buco.

Mentre tu speri io aspiro, mi gusto il piacere del primo sorso e della prima boccata. Farlo a comando non mi stressa, siamo uomini, macchine talmente semplici, siamo idraulica di base, equazioni di primo grado, siamo tirannizzati dai genitali.

Fin da quando siamo piccoli e imberbi, siamo come cani con i pantaloni e genitori più severi. Ci hanno dato un dio e insegnato il peccato, ma siamo solo animali con il pollice opponibile. Tu vuoi un figlio e a me non interessa. Vorrei nascondermi, come un mollusco dietro il suo epifragma. E mi piace pensare che qualche forza più grande lo proteggerà da me. La fortuna di non creare e non il dovere di essere creatore, moltiplicatore di razza umana.

Fortunato Ken, sotto i pantaloni aveva un bozzo, una conchiglia inutile, e non un cazzo e la sua funzione. La gente vede la vita come una scalata in sella a una bici in fibra di carbonio, un progredire evolvendosi verso un obiettivo. Io piuttosto la vedo orizzontale, solo strada da fare, fatica. Voi donne siete diverse per fortuna, il vostro movimento alla vita torna, è circolare. In voi è già, non serve molto altro. Non è la presa di coscienza ma il seguitare di un istinto. Come il sintagma mancante in questo periodo più o meno lungo che è la vita. Per altri è ingordigia, voler provare tutto. Oppure distrarsi , proiettare l’attenzione su un’altra cosa. Coppie esauste fanno figli per guardare altrove. Accanimento terapeutico, a volte ancora peggio: una pratica sportiva.

Lo chiamo parto sincronizzato, la prova a cronometro biologico della mia generazione.

– Cosa mangiamo stasera? –  Mi chiedi mentre un rivolo di sperma ti solca la schiena.

– Andiamo fuori – faccio io.

Mentre elenchi i nomi possibili per il maschietto guardando il menù distrattamente io studio il culo della cameriera, prima o poi anche lei cacherà il cazzo a qualcuno per avere un figlio. Le allargherà quel vitino da vespa, le ruberà la luce dei vent’anni a furia di poppate.

-Sei egoista, lo sai? – dico.

-Perché? sorridendo lei.

-Questa cosa del figlio dico, è solo per sentirsi come gli altri, per non rinunciare a niente, è il parossismo della nostra relazione.

-Per me è un bisogno, tu non capisci.

-I bisogni non camminano, non pisciano nei panni, i bisogni sono una cosa in meno, non una cosa in più.

-Scemo, stai scherzando?
-Naturalmente.

Verso un altro bicchiere, esco per strada, accendo una sigaretta, leggo un manifesto funebre.

“Si è spento serenamente, ne danno il triste annuncio i figli Marco e Maria”.

 

Simone Mele per “Scritti in Vetrina”: EZIANDIO

12248845_1706678742899506_1922655355_nSimone Mele, il quarto protagonista di “Scritti in Vetrina”, ha dovuto scrivere il suo folle racconto utilizzando le parole che seguono:

  • Eziandio;
  • Scatole;
  • Amore;
  • Abbrutimento;
  • Marconista;
  • Mele-gatti;
  • Sferzata

EZIANDIO

Ricordo perfettamente mia zia, zia Penelope, un essere speciale, una donna dall’animo pericolosamente tormentato.

La ricordo passeggiare avanti e indietro nella sala da pranzo dove io e la nonna consumavamo le carte napoletane in interminabili partite a scopa, con l’intento di ingannare il tempo infinito di pomeriggi mostruosamente noiosi.

Mia nonna aveva tutta una sua teoria sull’educazione dei fanciulli, al metodo Montessori preferiva il metodo “Monteroni”. Mi erano negati giocattoli che secondo la sua assurda teoria potevano nuocere al corretto sviluppo della personalità tipo i lego o lo Io-Io giocattoli pericolosamente autoreferenziali, o altri che potevano mettermi strane idee in testa come la Barbie suicida la barbieturici.

Io ero la cavia di questa sua strampalata teoria, ma zia Penelope ne era stata vittima anni addietro e questa doveva essere la causa scatenante del suo tormento interiore.

Lontano dallo sguardo della nonna cercavo con l’innocenza che solo un bambino può avere di smuovere la zia dal suo torpore di comprendere a fondo il perchè di quell’abbrutimento al quale si era rassegnata.

Un giorno, martellata dal mio interrogatorio mi confessò sottovoce- “Cerco Dio!” Poi tacque ritornando in catalessi o in catarin-tin-tin, non ricordo precisamente.

Pure essendo molto piccolo somatizzai il disperato bisogno che pietrificava zia Penelope, per giorni non chiusi occhio, morto di sonno mi imposi si aiutarla.

Dove trovare Dio a Lecce ed in piena estate? Una parola!

Mi recai per prima cosa dal mio catechista padre Calippo che abitava in un attico enorme dove era solito organizzare strani festini in maschera anche quando non era carnevale, suonai il campanello, mi rispose il suo fedele servitore Malcom X2.

“Cosa vuoi?” mi chiese infastidito.

“Cerco Dio, padre Calippo forse mi può aiutare.”

“Vattene, quel sant’uomo dorme si deve riprendere dalla festa di ieri notte”

Bloccai il citofono con uno stecchino e dopo alcuni assordanti minuti Malcom cedette.

Mi fece accomodare nell’enorme salotto, dove su una poltrona rosso porpora sedeva stordito padre Calippo  avvolto in una ridicola vestaglia di seta di colore verde panno subuteo.

“Cosa vuoi figliuolo?”

“Padre Calippo io cerco Dio!”

“Ah, bravo, anch’io sai ultimamente non lo trovo più, se ne sono perse le tracce, pensa che la sera con alcuni colleghi ci riuniamo in conclave per sapere dove si sia cacciato, ma abbiamo tutti le idee un po confuse. Facciamo così, continua a cercare e se sai qualcosa vieni a trovarmi, ora caro purtroppo devo lasciarti devo incontrarmi con i punti cardinali”

Lasciai l’attico al culmine della disperazione, per le questioni più spinose avevo sempre contato su padre Calippo e lui nonostante pesassi già molto per la mia età, non si era mai lamentato.

Questioni spinose, come “Ricci di mare o steli di rose?”

Domande capitali, come “Roma o Parigi?”

Aveva avuto sempre la risposta giusta padre Calippo, forse si era impigrito dandosi completamente al sacerd’ozio?

Non mi diedi per vinto e continuai imperterrito la mia ricerca di Dio per zia Penelope.

Passai dal sacro al profano e dall’elio al propano, domandandomi se un aristocratico si suicida solo con gas nobili, non dandomi risposta.

Mi rivolsi ad una signora simpatica e allegra che vedevo spesso aggirarsi nei pressi della ferrovia vestita in abiti succinti, alla mia domanda sul perchè esercitasse in zona mi disse che offriva la pre-stazione, questo mi sollevò molto preparando il terreno per la domanda fatidica- “Cerco Dio, lei sa dove posso trovarlo?”

Si chinò su di me e in un istante fui investito da una nuvola di profumo dal quale spuntarono due labbra carnose che tamponarono le mie.

Non trovai Dio in quell’occasione ma ci andai molto ma molto vicino.

Il pappone di turno mi allontanò interrompendo bruscamente il tete à tete.

Vagai per ore come stordito riassaporando quel bacio al lampone, poi mi ritornò in mente come per contrasto con l’allegrezza di quella donnina la tristezza infinita di Zia Penelope e del suo desiderio d’infinito.

A chi rivolgermi? a chi chiedere ausilio? In fondo cercavo Dio mica la figurina di Cuccureddu!

All’angolo della strada un uomo dalla magrezza preoccupante si avvicinò a me chiedendomi qualche moneta, aveva l’aria di chi non se la passava bene, un cappellaccio di lana gli copriva il capo un lercio impermeabile le sue quattro ossa,  mi accorsi subito che in un occhio era assente la pupilla, ma che l’altro emanava una luce speciale che contrastava con il suo aspetto sinistro.

Posai nella sua mano cento lire, frutto di un furto con destrezza dal portamonete di mia nonna, e chiesi il suo nome. Mi disse di chiamarsi Isaia di professione barbone, il suo motto era “la notte non è trascorsa in vano” , mi chiese cosa stessi facendo in giro da solo rimanendo stupito dalla mia risposta.

“Tu così giovane cerchi Dio?”

Gli raccontai l’intera vicenda di zia Penelope e della sua tristezza di mia nonna e dei suoi innovativi metodi educativi.

La risposta dell’uomo mi lasciò di stucco_ “Tua zia non cerca Dio, cerca l’amore! Se vuoi farla felice devi trovarle un uomo”

“Mi scusi, lei è un uomo?”

“Una volta si lo ero, ero una persona rispettabile facevo il marconista su una nave che è naufragata a causa di una mia comunicazione sbagliata, sai, ho tanta gente sulla coscienza.

Poi mi hanno licenziato ed ora eccomi qui a chiedere l’elemosina ai passanti.” Mi rispose singhiozzando.

Tentai in tutti i modi di consolarlo, ma riuscì a strapparli un sorriso solo giorni dopo quando mangiammo insieme un pandoro melegatti trafugato dalla dispensa di mia nonna, impresa non facile tenendo presente le eccezionali misure di sicurezza scattate dopo che aveva scoperto che la cameriera alleggeriva il contenuto delle bottiglie di alcolici e delle scatole di cioccolatini.

L’inverno era alle porte, la città  era sferzata da un vento gelido e per il mio nuovo amico le prospettive erano nere.

Avevo un progetto ambizioso, doveva essere lui il Dio che cercava mia zia.

Approfittai della settimana in cui mia nonna era via per un seminario internazionale sul metodo Monteroni e feci incontrare Isaia e zia Penelope la quale appena visto “l’uomo” si ravvivo quali fioretti dal notturno gelo chinati e chiusi, poi che l’sol l’imbianca si drizzan tutti aperti al loro stelo, riacquistando in un sol colpo la parola e la vita.

Si sposarono, anche mia nonna sotto l’influsso del nuovo arrivato ammorbidì molto il suo carattere tanto che vissero insieme per molti anni armoniosamente nella stessa casa.

Io spiavo spesso Zia Penelope e vedendola radiosa e innamorata ero contento pensando e-zia-n-Dio!

 

Omar Di Monopoli per Scritti in Vetrina: “RENDEZ VOUS”

1816-omarIl terzo protagonista di “Scritti in Vetrina” è stato Omar Di Monopoli che si è dovuto cimentare scrivendo un racconto nella vetrina della Libreria Icaro, utilizzando le seguenti parole:

  • Gastroscopia;
  • Gatto;
  • Spartiacque;
  • Bazzecole;
  • Stagnante/i;
  • Renault 4;
  • Grìcia;
  • Birra;
  • Amici.

RENDEZ VOUS

A sorpresa, dal fondo bituminoso della strada la Renault 4 di Ciro Scannacùerchi fece la sua comparsa.

Dapprima Enrico scorse solo un puntolino informe, come una capocchia di brace scarlatta che sfarfallava fiammeggiando sul crinale di quel tramonto velato di caligini, poi lo raggiunse lo stridore assordante del motore sbiellato che avanzava rombando a velocità folle, disperato, fuori giri.

Quando, con un prolungato rumore di disastro, l’automobile s’arrestò inchiodandosi a pochi metri da lui, Enrico era già completamente nel pallone.

Il boss, senza guardarlo direttamente in faccia, scantonò agilmente dalla macchina e agitò le scapole alate come piccole ali d’avvoltoio. Dietro di lui, appollaiati nell’abitacolo e apparentemente intenzionati a restarsene là dentro, tre dei suoi scalzacani più truci si rimpallavano beffarde occhiate di scherno.

“Cumpa’, qua teniamo un po’ di conti a ffare!”, dichiarò con un sorrisetto cattivo stampigliato sulla faccia, ciccando di lato sul terreno uno sputacchio filamentoso che andò a centrare in pieno una lucertola. Indossava un paio di neri stivali di cuoio da cowboy e una maglia a righe dal colore indefinito, ed era alto, immenso, enorme proprio come Enrico se lo ricordava. Ci aveva parlato solo una volta, alla sala-biliardo di Pierino, giù al quartiere di Buccinato. E non era stata una bella esperienza. Avevano preso accordi sulle tariffe dello spaccio, quel giorno, ma la trattativa non era risultata proficua per le sue tasche.

“’Scolta”, cercò di tranquillizzarlo lui. “Quello che è successo è facile da sistemare, bazzecole sono in confronto agli affari che possiamo ancora fare assieme!”

Si pentì quasi immediatamente di aver fiatato. Ciro lo fulminò con uno sguardo ossidrico che lo incenerì sull’istante.

“Muto!”, lo zittì portandosi un dito alla bocca. Poi, enfiando il petto e facendoglisi ancora più accosto, disse: “due possibilità tieni: la prima mi dici quello che mi devi dire e io e te andiamo a farci una birra assieme, da amici, e magari pure ‘nu piatto di gricia: conosco un posto dove la fanno proprio uguale al centro-italia, giuro!”.

Enrico deglutì ripetutamente a vuoto. Sentiva la gola stringersi e seccarsi come un imbuto pieno di sabbia mano a mano che i minuti scorrevano aspettando che il malavitoso gli rivelasse la seconda opportunità. Ma da come quello fessurò gli occhi cupo, sospirando amaro, capì che era meglio rimanerne all’oscuro. Ciro Scannacùerchi in paese lo sapevano tutti cosa era capace di fare. Dubbi sulla sua crudeltà non ce n’erano. Ma manco per niente.

D’un tratto, mentre un silenzio stagnante s’impadroniva della scena, Enrico alzò la mano e con un movimento lasco e misurato, in modo da non allarmare nessuno, se la portò lentamente alle tasche. Gli uomini nella macchina parvero sussultare in maniera appena percettibile, pronti a mettere mano ai cannoni. Invece Enrico, producendosi in un sorriso fesso, cavò un foglio spiegazzato e lo porse senza esitazione al boss. “Sono i risultati della tua gastroscopia, mio padre per l’ospedale lavorava e mò tiene ancora qualche contatto: li ha ottenuti prima del previsto e io per questo ti volevo parlare, la faccenda del gatto di tua moglie non c’entra niente!”

Ciro strabuzzò gli occhi sorpreso.

“Maccheccaz…!”, sbruffò da un lato della bocca.

Ora Enrico si era fatto serio.

“Davvero, non l’ho investito io quel cazzo di gatto, stava sullo spartiacque del canalone, giù alla marina, ed era già bell’e che stecchito quando sono passato io!”

Ciro tirò col naso rumorosamente, destabilizzato. Si voltò verso i suoi ragazzi e li guardò interrogativo, non sapendo bene che fare. “Dammi ‘sta carta, questa è roba personale!”, sbraitò brusco allungando una manona sul documento che Enrico continuava a sventolargli davanti.

“Ciro, meglio se ti fai controllare è!”, riprese Enrico con un sussurro mentre quello cercava di decifrare le cifre e le percentuali che affollavano il foglio. “Mio padre dice che i risultati parlano chiaro: ti resta davvero poco da vivere, ed è meglio se ci fai un pensiero, a lasciare tutto il tuo impero a qualcun altro”

Ciro ingrugnì il muso e lo fissò in cagnesco. Sembrava sul punto di scoppiare. Poi rilassò i muscoli e allargando la chiostra di denti guasti chiese: “Ah si? Tieni qualche nome in particolare in mente, tu?”

 

Simona Toma per Scritti in vetrina “L’OPERA STRUGGENTE DI UNA FORMIDABILE CRETINA”.

Secondo appuntamento per “scritti in vetrina”, gustateviSchermata-2015-09-01-alle-12.56.30-1000x500 l’esilarante racconto di Simona Toma messa alla prova dalle seguenti (non certo facili e scontate!!!) parole:

sambuca, suadente, nonno, canigghia, pan grattato, L.V.E.M., generale, #tuttodaggiustare, kryptonite.

Per chi ancora non la conoscesse, Simona Toma è nata a Lecce nel 1976 e lavora in regia e produzione per il cinema, la televisione e il teatro. Ha esordito per Mondadori con il romanzo young adult Da questo libro presto un film, tradotto in Germania e in Brasile. Sempre per Mondadori, ha pubblicato il romanzo Diario semiserio di una teenager disperata, con lo pseudonimo di Carlotta Fiore. Con Giunti ha pubblicato un racconto nell’antologia Buon Natale rosa shocking e il romanzo young adult Un bacio dall’altra parte del mare.

Buona lettura!!!

L’OPERA STRUGGENTE DI UNA FORMIDABILE CRETINA.

Ora di prigionia numero uno.

I librai sono esseri molto pericolosi, chi se lo poteva immaginare, erano qui sulla porta, mi hanno sorriso, io sono una persona debole, mi basta un sorriso, a me, sorridete proprio a me, davvero? Ed è stato un attimo, devono avermi sciolto qualcosa nel drink e mi sono ritrovata qui, in vetrina, costretta a scrivere e ora tutti lo capiranno che quello che scrivo non lo scrivo io, è opera di un’equipe di autori strapagati dalla Grande Casa Madre, capitanati da Pippo Baudo e Marisa Laurito.
E che vi pensavate voi altri? Che fossi davvero io a scrivere? Giammai, mi si rovinerebbe la manicure, non chiedetemi come ma mi si rovinerebbe la manicure.
Avrò chiuso il gas? Avrò spento la luce? Sento che mi sta venendo la febbre, mi sento la debolezza…
Signore, signore, sì, proprio lei che sta passando, scusi perché mi sta guardando? Le sembra strano che io sia qui in vetrina? E, allora, santiddio, mi aiuti, mi venga a liberare, chiami qualcuno, magari Matthew Mc Conaughey, ma come si pronuncia Matthew Mc Conaughey? Cioè, se ci fidanziamo in qualche modo dovrò chiamarlo, mi pare educato, un presupposto irrinunciabile per una seria e duratura storia d’amore, non pensate anche voi?

Signore, mi aiuti, mi venga a liberarare, questi tre sono pazzi, pazzi furiosi, signore mio, mi liberi, mi liberi o almeno chiami mia madre…

Ora di prigionia numero due.
Signore, non si lasci ingannare dalla loro mite apparenza, sono librai indipendenti, pericolosi, molto pericolosi, signore mio, e non mi meraviglierebbe che la gran parte dei casi irrisolti nel mondo, Cold Case li chiamano, siano opera di queste menti dedite al crimine.
Cold Case… Che poi io, guardo la serie nella funesta, e secondo me, esatta previsione che un giorno, potrei essere io un Cold Case e forse quel giorno è arrivato.

Nemici non ne ho tanti, signore, e si lasci pure ingannare dall’apparenza: una cinquantina di chili (cinquanta, secondo me, mentre secondo mia madre, la Signora Questura, i chili sono meno di trenta, benedetta madre, ancora mi insegue per farmi mangiare, per non parlare della nonna che, l’altro giorno, mi ha detto: “Figlia mia, come ti sei sciupata, prima tenevi quegli occhi così grandi… Gli occhi, nonna? Mi sono dimagriti gli occhi? Vabbè…), una cinquantina di chili, dicevo, di malcelato furore e le mie armi letali sono i calci negli stinchi, le dita a martelletto nel costato, gli abbracci negati, i baci che non do più, le parole che non ti ho detto.

Eppure, prima di finire in questa vetrina ero una persona normale, mi sono anche laureata in Giurisprudenza ma poi non avevo i vestiti adatti per andare in Tribunale.

Ora di prigionia numero tre.

Come? Mi lascerete andare solo se userò tutte le parole che sono scritte sulla lavagna? Quelle parole lì? Ma sono parole che esistono per davvero? Ma chi se l’è inventate? Un bradipo sadico con una leggerissima passione per il crack e la sambuca? Taaaac, prima parola…
Ma che c’entrano, poi, i bradipi? Frequentano le librerie i bradipi? Bah…

Ma io vi frego, so come fare, ma poi mi lascerete davvero andare?

Ok, vado.

Ricordo la voce suadente del nonno, il giorno che mi regalò Canigghia, l’orso che sempre mi accompagna.
Un orso color del pan grattato, giallo come gialli erano diventati gli occhi di mio nonno, gialli di febbre e di vita che se ne andava e dove non si sapeva.
Il nome gli derivava dalla storpiatura del cognome del calciatore argentino Caniggia: il nonno era un tifoso della nazionale argentina di calcio perché da giovane era andato a fare qualcosa lì, dall’altra parte del mondo.
Era partito dal niente e poi aveva fondato la L.V.E.M. (le iniziali dei nomi dei suoi nonni: Laura, Vittorio, Ermina e Mario), ditta specializzata nell’aggiustare le cose, tutte le cose, ma poi durante la dittatura, un generale prese a perseguitarlo e fu costretto a tornare in Italia per aver salva la vita.

Tuttodaggiustare, c’era scritto sul cartello affisso sul cancelletto della prima sede della sua ditta, #Tuttodaggiustare, si direbbe adesso.

Lasciò in Argentina tutte le sue ricchezze e il suo cuore…
Sofia vendeva il pane alla Recoleta e, quando il nonno era povero, lo sfamava e lo amava ma lei non lo aveva mai voluto sposare.
E nessuno ne conosceva il motivo.
Dicevano solo che aveva il cuore pericoloso, fatto di kryptonite, che faceva perdere le forze a chi la incontrava.

Povero nonno, aveva saputo aggiustare tutto, tranne il suo cuore…
Ma poi incontrò nonna e il suo cuore tornò dall’Argentina e il resto è storia e il resto sono anche io.

Ecco, ora che ho usato tutte le parole, sono libera? Mi lasciate andare?

Ora di prigionia numero quattro.

Mi guardano, mi guardano tutti… Avrò dell’insalata tra i denti?
Gentile ausiliario del traffico non elevi multa alla signora che ha parcheggiato qui di fronte, è andata un attimo in farmacia, che comunque non è una bella cosa, torna subito, no, gentile ausiliario del traffico, non sia crudele, non si insozzi il karma…
In effetti, di che colore sarà il karma dei gentili ausiliari del traffico?

Ora di prigionia numero cinque.

Mi sono innamorata dei librai, sindrome di Stoccolma la chiamano…
Una ragazza mi sta guardando in maniera strana o forse lo sto solo immaginando io?
Mi faccio i film, come dicono le creature?
Non è una brutta cosa, tutto sommato, il mio farmi i film mi ha dato un lavoro anzi due.
Sempre brava sono stata a trasformare la vita in racconti.
la vita io non la vivo, la racconto e me la racconto.
E posso diventare pericolosa perché un mio ex fidanzato è finito dritto tra le pagine del mio primo romanzo. Sputtanato e non rimborsato.

Io invece ci ho anche guadagnato dei soldi, in cambio del mio cuore sbriciolato, inghiottito e mal digerito.

Era stata una non storia di non amore, consumata soprattutto in tutti i bar della città: quando ci vedevamo ero sempre così ubriaca che non potevo non amarlo.
Presto, un Peridon, signora mia!

Ora di prigionia numero sei.

Credo che il mio puro sentimento nei confronti dei librai non verrà mai ricambiato, non credo abbiano intenzione di innamorarsi di me o forse hanno solo paura di amarmi, non so…
Tremo, ho freddo, ho sete, ho fame, non sento più i polpastrelli delle mani e le dita dei piedi, come quella volta che andai dall’angiologo perché dicevo che non sentivo più le dita dei piedi.
Entrai in sala d’aspetto e l’età media era di 93 anni, odore di lacca e caramelle alla menta, odore di conta di chi se ne è andato troppo presto “Gaetano mio, mi ha lasciato, è morto giovane, 88 anni teneva, Gaetano mio”.
Il mio ingresso fu salutato con evidente gelo – che ci fa questa vivente qui? – e ostentato fastidio.

Era gennaio, arrivò il mio turno, entrai, esposi il mio problema all’angiologo, lui mi guardò le scarpe e disse: non dovrebbe indossare scarpe di tela con questo freddo, ovvio che poi le si congelano le dita e non le sente più: 200 euro.
Senza fattura.
Io ho sempre paura di morire, di mille malattie diverse e temo la morte di chi mi sta accanto.
Il mio funerale, per non perdere tempo, l’ho già pianificato: voglio che mi si vesta da Barbie Fior di Pesco, l’interno della bara deve essere di pelouche, una banda suonerà My Way in tutte le sue versioni.
Sulla lapide, una scritta: “Se ritorno, vi faccio un culo così!”

Fortunatamente, al mio funerale non ci saranno risse per motivi di eredità.
Ora di prigionia numero sette.

Voglio rimanere qui per sempre, portatemi una birra però.

DALLE MEMORIE DEL DETECTIVE MATTHEW MC CONAUGHEY.

 

Simona Toma fu ritrovata in evidente stato confusionale da un ausiliario del traffico che elevava multa a contravventore, una tiepida sera della fine di ottobre dell’anno 2015.
Interrogata dalle autorità, aveva sostenuto di essere stata rapita da tre librai ma non era riuscita a fornire ulteriori dettagli sulla loro identità.
Simona sosteneva che nessuno le aveva fatto del male e diceva solo: “Riportatemi dove mi avete trovata, verranno a riprendermi, voglio rimanere con loro per sempre!”.

Adesso, Simona, dopo un lungo periodo di cure, si dedica al reinserimento in società di autisti traumatizzati da ausiliari del traffico.
Ed è diventata mia moglie e abbiamo tre bei bambini: Gabriele, Marino e Teresa.

Marco Marsullo per “Scritti in vetrina” MANUALE D’ISTRUZIONI PER L’UTILIZZO E LA CONSERVAZIONE DELLE PALLINE

Marco Marsullo, con il suo ultimo lavoro “I miei genitori non hanno figli” edito da Einaudi ospite d’onore di Luciana Littizzetto nella trasmissione “Che tempo che fa” di Fabio Fazio, è stato il primo scrittore a mettersi alla prova presso 12043160_10205037573595753_1668330776889903399_nla libreria Icaro nell’ambito del progetto “Scritti in vetrina”.

Queste le parole scelte dai clienti della libreria che Marco ha dovuto utilizzare nella stesura del suo racconto:

  • Ateneo;
  • Lectura;
  • Ammortizzatore;
  • Gatto Rosso;
  • Leggerezza;
  • Tunnel;
  • Opzione.

Manuale d’istruzione per l’utilizzo e la conservazione delle Palline.

Introduzione.

Partiamo dall’assunto che una Pallina è un essere umano come noi, nel senso lato del termine, solo che è una Pallina. Non ha le gambe, non ha le braccia, e certo, sottinteso, non ha un cervello. Questo, almeno, fino all’epoca moderna, quando con i primi lanci spaziali, i primi programmi televisivi con Pippo Baudo, i primi trapianti d’organi, appunto, è stata concessa anche a loro una vita “normale”. Le Palline vivono in contenitori pieni di altre Palline, dove tra loro parlano e  cospirano, si sentono migliori di noi umani, solo che non lo danno troppo a vedere. Talvolta, proprio per questo motivo, ci sono esseri umani, come il sottoscritto che scrive, che si sono innamorati di una di loro. La domanda nasce spontanea: cosa spinge un umano a scegliere una Pallina piuttosto che un altro essere umano?

Be’, prima di tutto, per la loro duttilità. Le Palline occupano meno spazio di un umano, hanno bisogni primari meno accentuati, mangiano meno (anche se si narra di Palline capaci di ingurgitare quantità di cibo superiore alla media umana, ma i libri di storia non ne riportano traccia, sono solo leggende, il CIP – Centro Internazionale Palline – che si trova a Dallas, negli Stati Uniti d’America, non ne fa mai menzione nei suoi trattati). Poi, motivi secondari per cui alcuni umani hanno scelto le Palline, sono la loro abilità nell’essere dei ninja (le Palline ninja sono pericolosissime, in Giappone hanno mietuto molte vittime nei secoli passati, e tutt’ora sono una piaga delle periferie dei più grandi centri abitati). Infine, le Palline vengono scelte dal 44% degli umani (dato Istat a campione nel centrosud italiano) per via della loro ricchezza. Le Palline sono seconde solo agli ebrei per possedimenti e quantità d’oro (Woody Allen presto girerà un film con una di loro come protagonista, Scarlett Johansson la interpreterà).

Capitolo 1.

Istruzione di una Pallina.

Essendo molto intelligenti, non hanno bisogno di frequentare le scuole materne, elementari, medie e superiori. Si iscrivono direttamente agli ATENEI universitari, di norma nei più prestigiosi e rinomati, dove finiscono per essere sempre tra le prime a laurearsi con il massimo dei voti. E questo  è strano, osserverete voi, dato che, come ho precedentemente riportato, non posseggono il cervello (alla fine sono Palline, fatte per lo più di gomma e materiale riciclato). E questo è uno dei misteri che avvolge la loro intelligenza sovraumana. Piero Angela e suo figlio Alberto hanno dedicato uno speciale sul tema che andrà in onda il prossimo anno su Rai Tre, in prima serata. La loro istruzione passa attraverso l’ascolto e la memorizzazione totale dei testi sacri (le Palline sono molto religiose, per lo più di fede cattolica; a oggi non ci sono casi di Palline legate all’Islam, per questo è da escludere la matrice terroristica di alcuni attentati a loro imputati negli anni). E poi, grazie a un loro particolare potere, la LECTURA, esse sono in grado di leggere nella mente dei loro interlocutori. Per questo, negli ultimi decenni, alcune di loro sono state assunte dalla CIA e dal KGB per continuare una silenziosa, e segreta, guerra fredda fatta di spionaggi e contromosse.

Capitolo 2.

Alimentazione di una Pallina.

Come precedentemente detto, le Palline mangiano meno degli esseri umani. Esse si nutrono, per lo più, di ortaggi, petti di pollo, AMMORTIZZATORI (sì, per via del loro legame storico con il metallo: elemento portante della loro crescita, a cui sono congiunte anche da un culto segreto, e infatti ci sono Palline che, seguendo questo culto, si sono trasformate in proiettili e hanno partecipato a numerosissime guerre in tutto il mondo). Tuttavia, ci sono anche casi di cannibalismo tra Palline; da cui il neologismo usato, soprattutto nell’America del Sud: cannipallismo (traduzione maccheronica dallo spagnolo). E, più rari, sono i casi di Palline che si nutrono di GATTI, ROSSI specialmente, perché in essi è presente una maggior percentuale di potassio (dicono gli studiosi, almeno). E’ da escludere che esse partecipino al Ramadan per via del fatto che, come precedentemente riportato, non vi sono casi di Palline legate al credo islamico.

Capitolo 3.

Carattere delle Palline.

Le Palline, nei secoli, hanno sviluppato una “LEGGEREZZA cosmica”, potere che consente loro di riuscire a vendere qualsiasi tipo di articoli a qualsiasi commerciante, ma non solo: esse riescono a risultare immediatamente simpatiche ai loro interlocutori; anche se, spesso, ma più per le Palline selvatiche, non quelle alfabetizzate e inserite nei circuiti cittadini, questa tecnica viene usata dalle Palline ninja (vedi Introduzione, pag. 1) per guadagnarsi la fiducia dell’astante prima di terminarlo con una mossa mortale, ninja, per l’appunto. Ci sono casi, riportati dagli atlanti medici per Palline, in cui si descrive una patologia legata al cambiamento del loro carattere: il “TUNNEL Pallinico”. Dicesi Tunnel Pallinico il momento della vita di una Pallina in cui essa finisce preda di un disorientamento tale che, una volta entrata in una galleria, essa non riesce più a uscirne. Talvolta anche per anni, decenni. Ormai con le nuove tecnologie (internet, GPS, google pallins – il google maps per Palline) questa patologia è andata scemando, ma resta tutt’ora una elevata causa di morte tra le Palline.

Capitolo 4.

Divertimenti delle Palline.

Le Palline hanno un carattere gioviale, amano la compagnia, e soprattutto amano l’aria aperta, perché possono ruzzolare più facilmente (alla fine sempre pezzi di gomma sono, oh). D’estate, esse adorano godersi lo SCIROCCO, a sera, di fronte al mare. Perché, fondamentalmente, una Pallina resta una sognatrice. Pensateci: ha dovuto immaginare un corpo che non ha (impianti chirurgici a parte), per vivere una vita avventurosa come quella di noi umani. Altri divertimenti delle Palline sono le discese (per ovvi motivi), i canestri, le porte di calcio, i bidoni dell’immondizia. In onore delle Palline dell’antichità nacque il simbolo delle Olimpiadi, quello con i cinque cerchi (uno per continente, si dice, ma in realtà cinque è il numero preferito delle Palline, per motivi prettamente di cabala che noi umani ignoriamo).

Capitolo 5.

Considerazioni finali sul mondo delle Palline.

Chi vi scrive è un umano che, come detto, si è innamorato di una Pallina. Il detto il cane è il miglior amico dell’uomo, a mio umile modo di vedere, è da rivisitare in “Una Pallina è la migliore amica dell’uomo”, perché una Pallina non ti tradirà mai, una Pallina te la ritrovi quando tutti gli altri sono andati via, presi dai propri problemi e affari. Optare per una Pallina è stata, a oggi, anno 2015 dopo Cristo, l’OPZIONE migliore che io abbia mai scelto per me e la mia vita. Poi, essere accanto a una Pallina ha anche dei vantaggi tattici non indifferenti. Sono antistress, sono morbide, comode, ti ci puoi appoggiare per dormire. Insomma: la mia esperienza è, a ora, positiva.

Spero che questo trattato sociologico vi sia d’aiuto per conoscere meglio il mondo delle Palline; per scriverlo ho dovuto consultare moltissime fonti (che citerò nella bibliografia) e scomodare alcuni dei più grandi teorici della psicopallinogia moderna.

Adesso vi lascio, perché è arrivato il momento di prendere le mie pillole per il cervello, qui, in questo Istituto per malati mentali dove vivo da otto anni, ormai.

Che poi, a pensarci, le pillole sono rotonde. Proprio come un Pallina.

In fede,

Marco Marsullo.

 

 

 

Noel Lang e Rodrigo Garcia – DOWNTOWN – Sonda

“il brutto dell’avere la Sindrome di Down è che il giorno5228211_376162 in cui nasci i tuoi genitori diventano un po’ tristi. Il bello è che, dopo quel giorno, non lo saranno mai più”.

Edo (Edoardo) è un bambino con Sidrome di Down e te lo dice subito, ma poi torna ad essere per i suoi amici e per i lettori soprattutto un bambino.

Lo è per i suoi amici che sicuramente prima o poi ci appariranno anche loro un po’ strani, di quella stranezza che è la diversità di ognuno di noi, che ci fa chiedere un’attenzione in più in alcuni momenti, che ci strappa una risata, che ci fa scoprire qualcosa di nuovo. E in questa realtà in cui siamo tutti un po’ uguali e un po’ diversi, Edo ha il suo posto nel mondo, strappandoci a volte un sorriso, a volte una lacrima, ma certamente più sorrisi.